domenica 24 gennaio 2010


Questo "occhio"
è una sorgiva
si chiama AISO
ed è a pochi km
da casa nostra
magico no?
Come il mondo daltronde.



GEOGRAFIA
l'orientamento

Erano i primi giorni di giugno, volevo affrontare l'argomento "punti cardinali" in modo che mio figlio li memorizzasse attraverso un emozione piacevole.
Così ho rimesso la sveglia mezz'ora prima dell'alba, mi sono alzata e sono andata fuori, in giardino, ho sistemato una seggiola orientandola verso est, l'aria era fresca, il cielo buio e gli uccelli notturni lanciavano i loro richiami quà e là nella campagna.
Sono tornata in casa e ho tirato giù mio figlio dal letto con tutta la coperta.
"Dove andiamo mamma?"
"A vedere il sole che sorge ad est di casa nostra"
L'ho portato fuori in braccio e mi sono seduta tenendolo sulle ginocchia.
Era tutto coperto, pian piano aprì gli occhi.
"Li senti gli uccelli notturni?"
gli chiesi
"Si!"
Dietro i pioppi si scorgeva la sagoma del Subasio, segno che la luce ci stava raggiungendo.
Lo indicai al bambino.
"Il sole sta per sorgere, ascolta"
Olmo era sveglio,la situazione era magica e carica di aspettativa, fu allora che accadde.
I richiami si spensero, di colpo calò il silenzio.
Per una manciata di interminabili secondi tutto tacque.
I primi raggi di luce si fecero largo tra le tenebre nel silenzio più totale.
Mio figlio ed io trattenemmo il respiro.
Un attimo dopo i primi uccellini diurni cominciarono a cinguettare.
Si erano dati il cambio.
Ma non in maniera disordinata.
Tutti insieme contemporaneamente gli abitanti della notte avevano taciuto.
Silenzio.
Poi coloro che vivevano e volavano nel giorno avevano salutato il sole.
E noi ne eravamo stati testimoni.
Insieme.
Rimanemmo ancora un po' a guardare verso est.
"Vedi li dove è più chiaro? Tra un po' si vedrà il sole. Quel punto si chiama EST e tutte le mattine il sole appare da quella parte."
Abbiamo cominciato così,
con una magia
a orientarci nel mondo.
Poi abbiamo osservato il sole tramontare dietro casa nostra, proprio nel lato opposto da dove era sorto.
Abbiamo costruito una meridiana piantando un asticella sul muro di casa esposto a sud e, facendo suonare la sveglia ogni ora, abbiamo segnato l'ombra che proiettava sul muro e l'ora che segnava l'orologio al momento di ogni intacca.
Lo abbiamo controllato il giorno dopo e abbiamo scoperto che l'ora era sempre la stessa.
Avevamo un orologio solare.
A quel punto ho consultato le mappe della mia zona su google maps, le ho stampate segnado i punti cardinali.
Al mattino (nel giorno in cui facevamo geografia) preparavo una merenda al sacco per Olmo e Aurora (mia figlia allora ventenne) gli consegnavo una mappa con itinerari sempre più difficili da seguire e loro li percorrevano in bicicletta.
All'inizio erano le strade marcate con una linea, poi indicazioni del genere: esci dal cancello e vai verso est, all'incrocio gira verso sud ...
Olmo adorava la geografia.
Ancora oggi guarda le mappe con una curiosità incantata.
Ho imparato un sacco di cose che non sapevo cercando di insegnarle a lui.
La geografia (che io tanto avevo odiato a scuola) è l'osservazione, lo studio del mondo che ci circonda. Se domandi a un bambino cosa vede mentre attraversi le strade di casa tua, lui saprà dirti se vivi in una zona agricola o industriale, se ci sono allevamenti, agglomerati urbani o zone industriali in vista. Si accorgerà (come è successo a noi) che tutto intorno ci sono montagne ma che noi siamo in pianura.E' da queste osservazioni che siamo partiti per leggere la "grafia di Geo" che l'uomo ha inventato per orientarsi in posti che non conosceva, o che scopriva e desiderava tramandare ad altri.
Io nella vita, per "lavoro" faccio la cuntastorie ma una storia così affascinante non l'avevo mai scoperta prima di aver deciso che:
io mio figlio a scuola non ce lo mando.
Ora siamo in 5° elementare .
Il programma parla di regioni Italiane, capoluoghi, province mari e fiumi, tutto da imparare a memoria.
No.
A che serve.
Come posso chiedere a mio figlio di mettere sotto spirito la magia.
Perciò da un po' di tempo ho cominciato a lavorare ad un Atlante fantastico , in cui i contorni di ogni regione racchiudono un immagine creativa.
I fiumi, i monti, i laghi ecc... sono i nomi dei protagonisti di una storia magica che riguarda quella regione.
In una scheda compilo un invito alla scrittura fatto di poche righe scritte da me e molti spazi che lui deve colmare, tipo:
"C'era una volta un lupo che si chiamava Lazio, il quale possedeva una ....... con la quale navigava nel Tevere, il fiume sacro ai................................. i quali vivevano una terra chiamata ciociaria ..."
Ci inventiamo delle storie, dei racconti o delle poesie sulle regioni.
Non so' quanto ricorderà a distanza di anni delle informazioni tecniche su ogni regione.
Per ora spero solo che continui ad amare questa materia per quello che è,
una splendida invenzione dell'uomo per l'uomo.

giovedì 21 gennaio 2010

Come abbiamo imparato a contare

I primi numeri furono quelli romani.
Si contavano le cose con dei bastoncini, il bambino trovò subito utile unirne due formando una V e decidere che ne rappresentava 5, se ne univamo 2 in una x voleva dire che erano 10. Avevamo usato dei simboli. Da li a poco passammo ai numeri. Olmo manifestò subito una certa difficoltà nello scrivere il 3 e il 5 dal verso giusto, spessissimo li scriveva rovesciati, quindi glieli feci modellare con l’argilla facendogli incidere la bocca e gli occhi a seconda della direzione in cui “guardavano”. Molti numeri “andavano” a sinistra, 1 2 3 4 7 9, ma due di loro si dirigevano a destra, il 5 e il 6, solo lo 0 e l’8 ci guardavano in faccia. Lo scopo era dare un anima personale ad ogni numero, farlo diventare un personaggio indimenticabile.



In seguito scrissi per Olmo una breve storiella e incollai le sue letterine di terra cotta sul muro delle scale, ogni volta che entravamo e uscivamo le vedeva e, in breve smise di commettere errori sulla posizione dei numeri.


Le prime operazioni vennero fatte con un pallottoliere da noi realizzato.





















Ma la vera scoperta fu la bilancia matematica.



In ogni operazione il bambino ricerca “l’equilibrio”. Se ad esempio, metto due pesi (i rettangoli azzurri) sul braccio destro (come nella foto: sul 4 e sul 2) in questo modo sta sommando i “pesi” dei due numeri. Nel braccio sinistro sistemerò il corrispondente “peso” della somma (6), quindi avrà ottenuto un punto di equilibrio sulla bilancia. Se il bambino si sbaglia il braccio pende dal lato in eccesso. Ci si possono fare tutte le operazioni, in questo modo Olmo visualizzava fisicamente le equivalenze e imparava divertendosi.

Ho trovato questo ausilio cercando in Internet ma, una volta capito il meccanismo lo si può costruire.
Naturalmente tutti i “giochi “ fatti con Olmo avevano un corrispettivo sui suoi quaderni. Le operazioni, per intenderci, venivano scritte e messe correttamente in colonna.
In questo primo anno (dopo il mese di dicembre) abbiamo affrontato le tabelline. Io avevo dei ricordi scolastici angoscianti perciò mi diedi molto da fare per renderle più divertenti possibili. Costruimmo un tabellone tipo “tombola” sempre fino alla tabellina del 5. Io tiravo su da un sacchetto le moltiplicazioni, es. 2x3, il bambino doveva trovare il 6 nella sua scheda. C’erano dei premi come in ogni tombola che si rispetti, per l’ambo, il terno, la quaterna ecc. Poi un mattino disegnai su una parete della casa un cerchio giallo diviso in 10 parti uguali,


in ogni parte della circonferenza ho scritto un numero progressivo da 0 a 9 in senso orario. Avevo letto, in un quaderno di esercizi dei miei amici veneti, che legando un filo allo 0 e fissandolo nelle unità corrispondenti ad ogni tabellina si creavano forme geometriche diverse, la vista delle quali aiutano il bambino a memorizzare le tabelline. Provai.

Alcune tabelline, come quella del 2 e del 5 sono semplici da memorizzare, per le altre ho adattato giochi come il memory. Usavo 20 rettangolini di carta, in 10 scrivevo le moltiplicazioni e nelle altre 10 i risultati. Li disponevo sul tavolo coperti e ci giocavo con Olmo (per chi non conosce il gioco, lo scopo è ritrovare i 2 corrispettivi scoprendo due carte alla volta, se non si indovina si ricoprono e si passa il turno al compagno). Il fatto che io abbia una pessima memoria ha reso più divertente il gioco, dato che lui vinceva spesso.

Scrivere da un lato di un cartoncino la moltiplicazione e dall’altro il risultato e far ricordare al bambino cosa c’è sotto è anch’esso molto utile. Inoltre ho usando gli “unisci puntini”, che comperavo o scaricavo in internet, cancellando i numeri progressivi e sostituendoli con quelli di una o più tabelline si può memorizzare disegnando.

Abbiamo fatto molti altri “giochi tabellina” nei successivi 3 anni di scuola. Per imparare quelle dal 6 al 9 e per ripassare. Un metodo interessante, quando una tabellina è particolarmente ostica e se si hanno delle scale da fare per arrivare in casa, è attaccare o disegnare le tabelline una su ogni gradino e chiedere al bambino di leggerle ad alta voce salendo o scendendo le scale. Con la fretta di arrivare Olmo, prima le leggeva poi le imparava a memoria così andava molto più veloce.
Ci sono molti altri modi, uno è con le carte Piacentine (o da scala 40 togliendo le figure). Si mette il mazzo coperto al centro del tavolo, si sceglie il numero della tabellina da ripassare e si mette vicino al mazzo, scoperta. A turno si gira una carta dal mazzo e, velocemente, si dice il numero del risultato della moltiplicazione che c’è a tavola. Es. se la tabellina è del 5 (perciò la carta scoperta vicino al mazzo è 5) e io scopro un otto devo urlare “Quaranta!”.
Perde chi non lo sa o ha delle esitazioni.
Naturalmente non è tutto qua, molti altri esercizi e giochi sono stati fatti per imparare a leggere, scrivere e far di conto a mio figlio. Questi sono quelli in cui mi sono divertita di più. Già perché, passato il primo momento di paura, lavorare per insegnare ad Olmo è diventata per me un attività molto gratificante. Soprattutto quando il bambino reagiva positivamente, ma anche quando le cose non funzionavano e dovevo inventarmi qualcosa di nuovo per coinvolgerlo.

domenica 17 gennaio 2010


Scuola familiare
l'esperienza nello specifico

IL PRIMO ANNO
Al ritorno dal primo giorno di scuola statale chiesi a mio figlio di farmi vedere cosa avessero fatto in classe.
Sulla pagina del quaderno a righe c’era scritto (di suo pugno) luogo e data e poi: “ io mi chiamo Olmo e sono felice di essere a scuola”. Tutte queste letterine erano state copiate alla lavagna, lui non sapeva assolutamente quale fosse il loro significato, il metodo a pappagallo, per imitazione, raggiunge il cervello dei bambini per sfinimento. Essi saranno degli ottimi consumatori domani, quando con lo stesso metodo li imbottiremo di spot pubblicitari e verranno indotti agli acquisti senza pensare. Nei primi tre mesi il bambino aveva già approcciato lo stampatello maiuscolo, il minuscolo e il corsivo.
Ricominciammo da capo.
Avevo letto dei libri su Rudolf Steiner * ma, soprattutto, avevo conosciuto amici veneti i cui figli frequentavano una scuola steineriana, dai loro quaderni e dai racconti imparai molte cose. Inoltre abbiamo visitato tre scuole, in Toscana, Lazio e Puglia.
Erano molto interessanti, stentavo a credere che un uomo vissuto nei primi anni del novecento fosse così avanti e che la pedagogia italiana non si ispirasse affatto ai suoi metodi, così semplici e geniali. Io non ne avevo mai sentito parlare. L’idea di iscriverlo in una di queste scuole private era per noi irrealizzabile perché non ce ne sono dalle nostre parti e costano molto. Inoltre portare Olmo in una scuola privata dove i bambini sembrano stare in un mondo incantato, le famiglie si frequentano come in una comunità chiusa, ci stava un po’ stretta, quindi imparammo il maggior numero di cose possibili e le trasferimmo nel nostro modo di fare scuola. Io credo che: “imparare a pensare è importante come sapere”. Quindi nulla doveva essere indotto “a memoria”, puntai sulla comprensione passando attraverso la stimolazione sensoriale.
LINGUA ORALE
Sui programmi ministeriali (che ogni anno scarico da Internet) nel primo anno di scuola è sottolineata l’importanza del saper parlare e comprendere altri che raccontano. Bisognava ascoltarlo mentre ci spiegava le regole di un gioco o l’avvistamento di una lucertola e chiedergli, alla fine di una nostra lettura, cosa gli fosse piaciuto. Spesso dopo aver visto un film di animazione domandare a lui di raccontarlo al papà, che non lo conosceva. Questi erano esercizi di scuola, ascoltarlo, aiutarlo nella sintesi e nell’uso di nuove parole per descrivere. Lo facevamo tutti molto volentieri.

LEGGERE
Perché bisogna imparare a leggere e a scrivere? Magari il bambino non ce lo chiede, ma quando cominciamo a farlo lavorare su questo lui certamente se lo domanda, perché? Perciò abbiamo deciso che ogni sera avremmo letto ad Olmo una favola o un racconto breve, perché sentisse che leggere e scrivere aveva un senso, emozionava e comunicava cose nuove. Non ho tenuto la memoria di tutti i libri che mia figlia Aurora gli ha letto, ma ricordo alcuni autori che posso consigliare per fasce d’età. **
A lui piaceva molto e nell’arco degli anni siamo passati dalle favole ai libri, letti un capitolo per sera. I suoi gusti sono cambiati crescendo, e la lettura ad alta voce con la pratica è diventata fluida ed interpretata. Un bene per entrambe le parti. Il bambino scopriva piano piano che si legge per conoscere, divertirsi, sognare e per molte altre ragioni ancora. Quindi il perché leggere era a lui comprensibile, più difficile era spiegargli perché scrivere. Infatti questa è una posizione completamente diversa, si scrive per comunicare agli altri cose che vengono da noi, per ricordare episodi e fissarli su carta ecc. ma un bambino di sei anni, nella sua vita reale non ha di queste esigenze. Dunque era e fu una forzatura insegnargli a quell’età i rudimenti dell’italiano scritto. Cercai di farlo proponendogli cose divertenti.


*”Arte dell’educazione” Rudolf Steiner Ed. Antroposofica
“Il settimo anno” Hermann Koepke Ed. Arcobaleno
** Leo Lionni (tutto), Gianni Rodari (storie brevi), Michael Ende “Il segreto di Lena” “A scuola di magia” “La notte dei desideri”, Daniel Pennac “L’occhio del lupo” “Abbaiare stanca”, Roald Dahl (tutto) “Cipì” di Mario Lodi, i libri di molte collane per la scuola come Enaudi scuola (“La freccia azzurra” Rodari “La casa asac” Borsani) o la serie del “Battello a vapore” (bellissimo “Il folletto a righe “ di Marìa Puncel) degli “Istrici” ecc. Poi libri più consistenti come: “Le tredici vite e mezzo di Capitan Orso Blu” di Walter Moers (divertentissimo e geniale) “La storia infinita” e “Momo” di Michael Ende, il ragazzino crescendo preferiva i racconti di avventura e di magia perciò “Harry Potter” di J.K.Rowling, “Artemis Fowl” di Eoin Colfer, “Deltora” di Jennifer Rowe, “Le avventure di Meschino” di Kate DiCamillo , “Monty” di Tor Seidler.


Alcune idee per memorizzare le lettere dell’alfabeto:
“Le lettere dell’alfabeto fanno parte della nostra vita,” dissi un giorno a Olmo “sono tutte intorno a noi, andiamole a cercare.” Il bambino non mi credeva, ma si fidava di me, perciò partimmo alla ricerca delle lettere del mondo. Quando incontrammo questa bellissima A non credeva ai suoi occhi.
Scovammo lettere dell’alfabeto in molti oggetti di uso comune, alcuni somigliavano alla letterina da cui prendevano il nome (come crosta o cornetto).
Abbiamo scoperto tutte le lettere dell’alfabeto, in stampatello maiuscolo nelle cose del mondo, quelle che ci mancavano le facevamo con le dita o con il corpo.
Quando tornavamo dalle nostre piccole spedizioni scrivevamo la letterina che avevamo trovato, per ognuna avevamo una scatola all’interno della quale raccoglievamo fotografie, reperti e disegni che ne illustravano le caratteristiche. Poi cominciammo a giocare con i disegni delle lettere. Olmo le scriveva, poi doveva trovarci dentro una figura.
Trovai una storia bellissima di Leo Lionni: “L’albero delle parole” che raccontava come, una volta, esistessero alberi i cui frutti erano lettere dell’alfabeto. Con l’argilla e degli stampini modellammo tantissime lettere che, una volta cotte furano appese nel salice del giardino. Avevamo anche noi un albero delle parole sotto al quale sederci quando eravamo poeti in cerca di ispirazione.
Le vocali le drammatizzammo in modo teatrale.
A è la vocale dell’Ammirazione , E quella della difesa (esercito,elmo), I la vocale fatta per avvicinarsi (incontrarsi) la O è quella della meraviglia (il nostro viso pronunciandola si illumina di stupore) U è invece la vocale della paUra (dell’Ululato e dell’Urlo).
A questo punto potevamo cominciare a unire le lettere per formare delle parole. Ne inventavamo molte e molto più complicate man mano che ne scoprivamo, perciò con la sola A potevamo solo esclamare di risposta a qualche evento. Ma con la A e la B ci venne fuori un bel BABBA’ da gustare ascoltando la musica degli ABBA. Quando conquistammo la C andammo in cerca di una BACCA e subito ci uscì la CACCA e così via. Fu molto divertente. Usammo anche molti strumenti diversi per scrivere dalla piuma di un piccione immersa nella china ai gessetti, dall’etichettatrice per l’ufficio alle tempere a dito. Alla fine scoprimmo che la matita era lo strumento migliore, scriveva dappertutto e si poteva cancellare.
Così abbiamo approcciato tutti gli argomenti che dovevamo trattare in quell’anno.
e crescere con lui è stato molto divertente.
Sin da quel primo anno ho imparato ad accettare la mia infinita ignoranza, moltissime volte ho risposto ad una sua domanda: " Questo io non lo so", e poi andavamo a cercare le risposte, da altri, sui libri, in internet.
Il bambino ora sa che prendere coscenza di non sapere è un ottima base di partenza per conoscere, e pure io lo so.

venerdì 15 gennaio 2010

Questo è il racconto di un esperienza familiare entusiasmante e di una sconfitta sociale disarmante.
Il primo passo fu il colloquio con il dirigente dell’istituto, con la scusa del nostro lavoro itinerante, gli consegnammo una domanda che avevamo trovato in un sito sulla homeschooling* ( o scuola paterna) in cui dichiaravamo di prenderci cura dell’istruzione del bambino personalmente. In realtà non c’era bisogno di scuse, la scuola familiare è un diritto-dovere, quindi indiscutibile. Il direttore prese qualche giorno per informarsi sulle procedure da seguire, eravamo un caso unico secondo lui. In realtà, a livello burocratico non ci furono problemi.
Questo è il modulo di domanda che noi, ogni anno entro i primi giorni di settembre, inviamo alla scuola di riferimento territoriale:
___________________________________________________
Al Dirigente dell’ istituto………

Io sottoscritto……., padre di …………..dichiaro di essere in possesso dei seguenti titoli di studio :…………………………
Io sottoscritta ……….madre di ……….dichiaro di essere in possesso dei seguenti titoli di studio……………………………
Con questa nostra comunichiamo al Dirigente Scolastico dell’istituto………………………. La nostra intenzione di avvalerci del diritto sancito dalla Costituzione Italiana che prevede la possibilità di praticare la “scuola paterna o familiare”.

Firma del padre e della madre
Data e luogo


I requisiti scolastici non sono stabiliti dalla legge. Questo naturalmente per quello che riguarda il primo ciclo della scuola primaria (dalla prima alla quinta elementare) della quale abbiamo esperienza diretta. Il primo anno il dirigente ci chiese di sottoporre il bambino ad un esame a fine anno. La normativa non era molto chiara ma il direttore ci rassicurò dicendoci che la prova era identica a quella richiesta quando si vuol far anticipare di un anno la scolarizzazione al proprio bambino (la cosiddetta “primina”) e noi accettammo.
In seguito, e a tutt’oggi è così, una circolare ministeriale del 2008 ha stabilito che gli alunni provenienti dalla scuola familiare sono obbligati a sottoporsi ogni anno ad un esame di idoneità.**
Ci sembrava un po’ anacronistico che, in un periodo storico in cui persino gli esami di 5° elementare erano stati aboliti, si richiedesse a nostro figlio di sottoporsi a questo stress ogni anno. Andammo al provveditorato. Ascoltarono le nostre ragioni e ci suggerirono di intraprendere un azione legale. Demordemmo. In fondo questo ci sembrava il male minore. Accettammo l’ esame, che potevamo concordare con le insegnanti e che si basava su un programma da noi presentato, in cambio della libertà di insegnare a nostro figlio come e quando volevamo. Abbiamo da allora presentato ogni anno una domanda al dirigente scolastico nella quale chiedevamo che nostro figlio fosse sottoposto all’esame, incontravamo le tre maestre qualche giorno prima dello scrutinio e facevamo vedere loro tutto il materiale prodotto durante l’anno. Le insegnanti ci dicevano come avrebbero portato avanti il colloquio e le prove scritte in modo da preparare il bambino, inoltre ci hanno sempre permesso di assistere ( in silenzio, magari fuori della porta aperta) a tutti gli esami. A distanza di qualche mese la scuola ci rilasciava un documento che attestava l’idoneità del bambino a passare nella classe successiva. In questo modo, qualsiasi cosa fosse accaduta, poteva rientrare l’anno successivo nella classe corrispondente alla sua età; se noi o il bambino avessimo voluto.
Non ce ne fu mai bisogno.
Questi sono i passaggi burocratici obbligati e le esperienze personali che ci hanno portato alla scelta. Poi è venuta la quotidianità della scuola fatta a casa. All’inizio ero terrorizzata. Un conto è immaginare la cosa, un altro era farla. Mi addormentavo la sera domandandomi se sarei stata in grado di insegnare a mio figlio. Mi arrovellavo il cervello con problemi legati alla socializzazione del ragazzino. Temevo che il mio rapporto di mamma si sarebbe guastato qualora mio figlio mi avesse visto come la “maestra”. E poi come organizzare il tutto mi sfuggiva completamente. Non mi credevo capace di sostenere lo stress degli esami: quel che sapeva o non sapeva il bambino era merito e colpa mia. Per fortuna la mia famiglia mi sosteneva, Olmo era felice e le notizie che mi giungevano delle mamme che avevano scelto un percorso “normale” rafforzavano la nostra decisione di continuare con la scuola familiare. Prima decisi di organizzare i tempi scolastici in base alla disponibilità del bambino. Gli insegnavo quando lui ne aveva voglia. Impossibile. Un bambino di sei anni non ha mai voglia di sedersi a scrivere. Quindi stabilimmo un orario quotidiano, dalle 10 alle 12 tutti i giorni tranne la domenica. Tolta qualche eccezione questo è il ritmo che abbiamo tenuto per tutti e cinque gli anni. Ve lo immaginate? Il bambino si sveglia sempre spontaneamente, senza fretta. Quando facciamo tardi la sera si alza più tardi, ma c’è sempre abbastanza tempo per fare tutto quello che abbiamo programmato. Fa colazione con noi raccontandoci i sogni che ha fatto la notte. Si lava si veste poi cominciamo. I primi tre anni io ero l’insegnante tuttofare. A mia figlia maggiore ( anni 20) spettava la musica mentre mio marito era impegnato in tutte le attività pomeridiane. Perché il bambino deve socializzare, con gruppi organizzati (sportivi o didattici come la scuola di musica o di lingua straniera) o con attività libere, andare al parco e da amici. Insomma tutte le nostre attività e impegni lavorativi si sono adattati a questa scelta. Io avevo la mattina impegnata e il pomeriggio libero, viceversa mio marito poteva lavorare il mattino e dedicarsi ad Olmo il pomeriggio. I fine settimana erano nostri e spesso lavoravamo tutti insieme (noi facciamo spettacoli da strada per bambini ***). Nel quarto e quinto anno invece mio marito è intervenuto per alleggerire l’onere del mio lavoro e mi ha sostituito nell’insegnamento della grammatica italiana, della matematica e in parte della lingua straniera. Ognuno con i suoi metodi e con le proprie difficoltà ci alterniamo in questa avventura. E Olmo? Non posso naturalmente dirvi cosa pensa lui realmente ma, mi piace ricordare un aneddoto a proposito di quel che il bambino ha manifestato in questi anni. Noi non abbiamo mai usato i voti. Se il ragazzino ha capito e sa fare bene, altrimenti si ripassano le cose possibilmente con altri metodi; ebbene un giorno un suo coetaneo mentre giocavano
nei giardini pubblici gli ha detto:
“Sai, io sono il primo della classe in matematica!”
“Anche io” ha risposto Olmo.
Certo ci sono stati momenti duri, per un lungo periodo durante il terzo anno non aveva mai voglia di scrivere ad esempio, ma le cose belle superano di gran lunga le difficoltà, quindi continuiamo a ritenere questa esperienza positiva e auspicabile


*http://www.alberosacro.org/legislazioneitaliana.htm **http://www.pubblica.istruzione.it/normativa/2005/dlgs76-05.shtml ***http://www.edscuola.it/archivio/norme/circolari/cm032-08.html **** www.lacreativendoleria.com

giovedì 14 gennaio 2010

Ho scoperto che in Italia è obbligatoria l'istruzione, non la scuola.

Eravamo pronti.
Lo zainetto alla fine lo avevamo dovuto comperare, insieme all’astuccio e ad alcuni quaderni. Nostro figlio Olmo aveva un compagno di giochi iscritto alla sua stessa classe, quindi i confronti erano inevitabili. Eravamo già scesi a molti compromessi. Far parte di questa mercificazione dell’istruzione ci faceva rabbrividire. Ma avevamo deciso di fare un tentativo. Se il bambino si fosse trovato bene … se le insegnanti si fossero rivelate attente … se la “scolarizzazione” non fosse stata troppo invasiva avremmo continuato a mandarlo a scuola. Eravamo entrati nel mondo dei se. Anche facendo un attenta indagine sul territorio, per scoprire un sito scolastico dove le classi non fossero numerosissime (come si possa insegnare a 22 bambini, chiusi in un aula tutti insieme è per me ancora un mistero), pur avendo raccolto informazioni dalle mamme sull’andamento di quella piccola scuola di paese, non avevamo alcuna certezza su come sarebbe andata.
Il primo giorno, lo accompagnammo tutti e due, mio marito e io stavamo rivivendo un trauma. Lo avevamo già fatto con i nostri due figli maggiori, sapevamo quanto quell’ appuntamento avrebbe cambiato le sorti della loro esistenza. Ora toccava al piccolo Olmo. Quando lo avevamo concepito ci eravamo giurati reciprocamente che mai, per nessuna ragione gli avremmo fatto subire le violenze scolastiche che avevano patito i suoi fratelli. Per questo fin dalla prima decisione avevamo avviato una serie di indagini su come evitare i nostri precedenti errori. Fra queste al terzo posto dopo l’allontanamento del neonato alla nascita, la questione vaccini, veniva la scuola.
L’ articolo 30 della costituzione italiana sancisce quanto segue:
“E’ dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli … Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti …”
Il che significa che se sei in grado di insegnare a tuo figlio lo puoi fare da te, altrimenti puoi pagare qualcuno che lo faccia al posto tuo ma, se non hai gli strumenti per fare ne l’una ne l’altra cosa allora, e solo allora, lo stato ti garantisce un servizio scolastico adeguato.
In Italia, dunque, l’istruzione è obbligatoria, non la scuola.
Forti di questa nostra “scoperta” affrontavamo quel primo giorno. L’impatto fu disarmante. L’edificio scolastico era un scatola di cemento incastrata tra due strade. Le stanze erano grigie, il clima lugubre. Lo lasciammo lì e, con un peso nel cuore, ce ne andammo a fare colazione. Era cominciato il ritmo scolastico. Sveglia alle sette, per tutti, vestitini pronti dalla sera prima, zaino in ordine (più in la ci sarebbero stati anche i compiti da fare) merenda al bambino che come gli altri due si rifiutava di mangiare appena sveglio. Da quel giorno si poteva dare l’addio a qualsiasi attività familiare da vivere insieme oltre le 21 e 30. Il coprifuoco dei bravi bambini dettato dagli orari scolastici coinvolgeva inesorabilmente anche noi adulti. La merenda casareccia non avrebbe retto per molto alle invidiate merendine dei compagni e l’abbigliamento modesto sarebbe diventato presto un “problema” da affrontare. Eravamo pronti a combattere su tutti i fronti, pur sapendo che lo sguardo umiliato di nostro figlio avrebbe sgretolato molti buoni propositi di coerenza anticonsumista che ci eravamo prefissi. Le nostre facce erano tirate, lo sguardo assonnato ed entrambi soffrivamo il peso della responsabilità di quella scelta. Il primo colpo ci fu inflitto da un insegnante il giorno stesso. Il grembiulino. La divisa, a quanto diceva la maestra, era obbligatorio in quella scuola. Andammo a parlare con il direttore che ci rassicurò, era consigliato non obbligatorio. Il giorno dopo tutti i bambini lo indossavano tranne Olmo. Cominciava con quella piccola diversità una serie di grandi battaglie che nostro figlio avrebbe dovuto combattere a causa dei nostri principi. Nel corso della prima settimana erano già uscite fuori alcune delle caratteristiche che contraddistinguono la scuola italiana. Chi non faceva religione cattolica doveva uscire dalla classe per andare, nella migliore delle ipotesi, a fare ripasso con un insegnante libera; nella peggiore in un'altra classe. Nostro figlio, informato sui fatti, ci aveva chiesto di restare con i compagni, lo imbarazzava questo esilio. Poi fu la volta della canzoncina da imparare tutti insieme per la festa dell’inizio dell’anno scolastico (quando dico tutti insieme mi riferisco anche ai bambini musulmani che erano iscritti lì), la canzone sulla Vergine Maria che proteggeva i bambini. Non lo considerammo un buon inizio. Ma eravamo ancora abbastanza soddisfatti dell’umore del bambino, per questo andammo avanti. Dopo tre mesi la situazione cominciava a degenerare. Pur non volendo discutere sui metodi d’insegnamento dovevamo ammettere che il bambino manifestava delle sofferenze evidenti. Piangeva quasi ogni mattina chiedendo di non andare a scuola. Tornava a casa serio e imbronciato, ci volevano delle ore (rubate ai compiti) per fargli tornare il buon umore che tanto apparteneva al suo carattere. Poi cominciò a fare la pipì a letto. Lo abbiamo tolto da quella scuola dopo tre mesi. E da quel giorno è cominciata la nostra avventura di insegnanti e genitori. Anno dopo anno siamo arrivati in 5° elementare.