Eravamo pronti.
Lo zainetto alla fine lo avevamo dovuto comperare, insieme all’astuccio e ad alcuni quaderni. Nostro figlio Olmo aveva un compagno di giochi iscritto alla sua stessa classe, quindi i confronti erano inevitabili. Eravamo già scesi a molti compromessi. Far parte di questa mercificazione dell’istruzione ci faceva rabbrividire. Ma avevamo deciso di fare un tentativo. Se il bambino si fosse trovato bene … se le insegnanti si fossero rivelate attente … se la “scolarizzazione” non fosse stata troppo invasiva avremmo continuato a mandarlo a scuola. Eravamo entrati nel mondo dei se. Anche facendo un attenta indagine sul territorio, per scoprire un sito scolastico dove le classi non fossero numerosissime (come si possa insegnare a 22 bambini, chiusi in un aula tutti insieme è per me ancora un mistero), pur avendo raccolto informazioni dalle mamme sull’andamento di quella piccola scuola di paese, non avevamo alcuna certezza su come sarebbe andata.
Il primo giorno, lo accompagnammo tutti e due, mio marito e io stavamo rivivendo un trauma. Lo avevamo già fatto con i nostri due figli maggiori, sapevamo quanto quell’ appuntamento avrebbe cambiato le sorti della loro esistenza. Ora toccava al piccolo Olmo. Quando lo avevamo concepito ci eravamo giurati reciprocamente che mai, per nessuna ragione gli avremmo fatto subire le violenze scolastiche che avevano patito i suoi fratelli. Per questo fin dalla prima decisione avevamo avviato una serie di indagini su come evitare i nostri precedenti errori. Fra queste al terzo posto dopo l’allontanamento del neonato alla nascita, la questione vaccini, veniva la scuola.
L’ articolo 30 della costituzione italiana sancisce quanto segue:
“E’ dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli … Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti …”
Il che significa che se sei in grado di insegnare a tuo figlio lo puoi fare da te, altrimenti puoi pagare qualcuno che lo faccia al posto tuo ma, se non hai gli strumenti per fare ne l’una ne l’altra cosa allora, e solo allora, lo stato ti garantisce un servizio scolastico adeguato.
In Italia, dunque, l’istruzione è obbligatoria, non la scuola.
Forti di questa nostra “scoperta” affrontavamo quel primo giorno. L’impatto fu disarmante. L’edificio scolastico era un scatola di cemento incastrata tra due strade. Le stanze erano grigie, il clima lugubre. Lo lasciammo lì e, con un peso nel cuore, ce ne andammo a fare colazione. Era cominciato il ritmo scolastico. Sveglia alle sette, per tutti, vestitini pronti dalla sera prima, zaino in ordine (più in la ci sarebbero stati anche i compiti da fare) merenda al bambino che come gli altri due si rifiutava di mangiare appena sveglio. Da quel giorno si poteva dare l’addio a qualsiasi attività familiare da vivere insieme oltre le 21 e 30. Il coprifuoco dei bravi bambini dettato dagli orari scolastici coinvolgeva inesorabilmente anche noi adulti. La merenda casareccia non avrebbe retto per molto alle invidiate merendine dei compagni e l’abbigliamento modesto sarebbe diventato presto un “problema” da affrontare. Eravamo pronti a combattere su tutti i fronti, pur sapendo che lo sguardo umiliato di nostro figlio avrebbe sgretolato molti buoni propositi di coerenza anticonsumista che ci eravamo prefissi. Le nostre facce erano tirate, lo sguardo assonnato ed entrambi soffrivamo il peso della responsabilità di quella scelta. Il primo colpo ci fu inflitto da un insegnante il giorno stesso. Il grembiulino. La divisa, a quanto diceva la maestra, era obbligatorio in quella scuola. Andammo a parlare con il direttore che ci rassicurò, era consigliato non obbligatorio. Il giorno dopo tutti i bambini lo indossavano tranne Olmo. Cominciava con quella piccola diversità una serie di grandi battaglie che nostro figlio avrebbe dovuto combattere a causa dei nostri principi. Nel corso della prima settimana erano già uscite fuori alcune delle caratteristiche che contraddistinguono la scuola italiana. Chi non faceva religione cattolica doveva uscire dalla classe per andare, nella migliore delle ipotesi, a fare ripasso con un insegnante libera; nella peggiore in un'altra classe. Nostro figlio, informato sui fatti, ci aveva chiesto di restare con i compagni, lo imbarazzava questo esilio. Poi fu la volta della canzoncina da imparare tutti insieme per la festa dell’inizio dell’anno scolastico (quando dico tutti insieme mi riferisco anche ai bambini musulmani che erano iscritti lì), la canzone sulla Vergine Maria che proteggeva i bambini. Non lo considerammo un buon inizio. Ma eravamo ancora abbastanza soddisfatti dell’umore del bambino, per questo andammo avanti. Dopo tre mesi la situazione cominciava a degenerare. Pur non volendo discutere sui metodi d’insegnamento dovevamo ammettere che il bambino manifestava delle sofferenze evidenti. Piangeva quasi ogni mattina chiedendo di non andare a scuola. Tornava a casa serio e imbronciato, ci volevano delle ore (rubate ai compiti) per fargli tornare il buon umore che tanto apparteneva al suo carattere. Poi cominciò a fare la pipì a letto. Lo abbiamo tolto da quella scuola dopo tre mesi. E da quel giorno è cominciata la nostra avventura di insegnanti e genitori. Anno dopo anno siamo arrivati in 5° elementare.
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ciao, ho appena scoperto questo blog, e lo trovo davvero bellissimo! appena avro' un poco di tempo in piu leggero' tutto per benino, perche' l'argomento 'scuola a casa' mi interessa tanto.
RispondiEliminacomplimenti!^^